di Luigi De Maio, psichiatra
Il telefonino altro non è che un buco della serratura da cui sbirciare la vita degli altri vera o apparente che sia, ma è anche il palcoscenico su cui possiamo postare la nostra vita, le cose che facciamo, i giudizi e le opinioni che senza pudore vomitiamo su tutto e tutti per poterci sentire facenti parte del mondo virtuale. Sì, perché la realtà ha perso significato se non è mediata da questo oggetto d’amore e di odio che ciascuno conserva e osserva con rispetto e timore. Dove sono finiti gli sguardi di complicità, gli abbracci rubati, la voglia di percepire l’odore di chi ci è accanto? Nel telefonino. Che cosa è successo? Forse, specialmente per i giovani, la negligenza del supporto affettivo familiare ha generato il bisogno di una diversa famiglia, quella virtuale. Un bisogno di sentirsi parte di una comunità accogliente e feroce allo stesso tempo. Uno sfaldamento delle sicurezze che investe trasversalmente almeno un paio di generazioni votate all’apparire piuttosto che all’essere o meglio quasi obbligate a fingere pur di gareggiare nella partita senza esclusione di colpi che solo i like possono far vincere. Molte sono le componenti responsabili di questo comportamento. Se inizialmente è la curiosità che apre le porte del mondo, poi è la necessità di sentirsi parte di qualcosa, la voglia di dire: “Ci sono anch’io”, il senso di solitudine o di vuoto esistenziale e progettuale che noi adulti abbiamo tolto ai giovani. Poi ci lamentiamo se vediamo i ragazzi perdersi nello schermo del proprio telefonino evitando di parlarci. C’è da chiedersi: ma noi vogliamo ascoltarli o siamo solo curiosi di entrare nel loro mondo? Un mondo verso cui li abbiamo spinti con i veri o presunti affanni della vita, più attenti all’avere che all’essere.