di Luigi De Maio, psichiatra
Nasce come un brivido lì, proprio vicino al cuore, si espande, sale verso i pensieri sotto forma di dubbio; e poi ancora giù per le mani che sudano e tremano come costrette ad afferrare qualcosa che fugge e ancora su per imporsi come dubbi bisbigliati, con tanto di sbancamento del volto. Agiamo a scatti annullando la coscienza della finalità delle azioni, siamo in preda alla certezza che sta per accadere qualcosa di drammatico: proviamo ansia. Ci sentiamo soli isolati, senza la capacità di comprendere. E così, di corsa alla ricerca di qualcosa che interrompa al più presto questa morte vista con gli occhi e sentita col cuore. Faremmo qualsiasi cosa pur di allontanare questa sofferenza che ci blocca e ci rende impotenti. Ecco quindi giustificato l’utilizzo di un farmaco, un alleato, un mercenario capace di difendere le barriere delle presupposizioni, le fortificazioni pseudo-logiche, le porte dell’isolamento emotivo fino a negare la coesistenza dell’Io. Eppure c’era un tempo in cui questa voce interna era ascoltata, ricercata come un contatto costante capace di trasformare la curiosità in esperienza e l’esperienza in complicità. E’ la voce della pelle che delimita i confini dell’universo che è fuori di noi, è la percezione di un “me” e di un “mio”, è la consapevolezza di essere individuo infinito dentro e definito fuori. E, ancora, la certezza dei valori e delle credenze plasmate intorno a ciò che siamo e a ciò che potremmo essere. Poi succede che ci lasciamo “fondere” con altro e con ciò che per altri ha valore, fino a diventare tanto piccoli dentro da non riuscire più ad ascoltarci e tanto immensi fuori da dover-poter fare tutto. Infine sacrifichiamo noi stessi sull’altare dei giudizi altrui, immolandoci a regole e a comportamenti che negano la soggettività per confonderci con l’oggettività. Allora, fermiamoci. L’ansia è l’urlo del nostro “io” soffocato. E’ la spallata che vorrebbe rompere il guscio delle presupposizioni. È la certezza di esistere. Abbassiamoci, così come faremmo con un bambino spaventato per guardarlo negli occhi e accogliamolo con la tenerezza di chi sa che la vera forza della vita sta nell’accoglienza del nostro bambino. Solo con lui possiamo riappropriarci delle certezze che le nostre emozioni e i nostri sentimenti sanno darci. È questa la chiave che rompe il guscio dell’apparire per affermare il nostro essere.