di Luigi De Maio, psichiatra
Volendo dare un significato alla parola violenza potremmo tradurla in: tutto ciò che viola sia fisicamente che moralmente la soggettività individuale. Possiamo dedurre che siamo circondati da violenza, siamo spinti a pretendere piuttosto che chiedere, a urlare piuttosto che parlare, a imporre piuttosto che suggerire. È questa la realtà con cui entrano in contatto i ragazzi, una realtà fatta di arroganza nella comunicazione e di superficialità nei contenuti. Non si educa più all’attesa in funzione della meta, né al rispetto dell’altro, ma si spinge al “tutto e subito “, dove chiunque dovesse porre impedimenti diventa un inutile ostacolo da superare. I ragazzi sono il prodotto della società che li circonda, sono i figli lasciati parcheggiare col telefonino o davanti a un video, perché non diano fastidio. I più, cresciuti alla ricerca di identità e di regole che cercano nei media, – dove si sentono liberi di esprimere i propri dubbi, le difficoltà, il senso di isolamento. Confrontandosi con questo mondo virtuale imparano a nascondersi come persone per diventare personaggi alla ricerca di un “like” che possa illuderli di essere amati e riconosciuti. L’altro non si tocca, non si ascolta, non si annusa. L’altro non c’è nemmeno nella relazione affettiva e/o sessuale. Diventa un oggetto da postare in un confronto anonimo che bisogna costantemente rinnovare. Noi ci nutriamo di carezze, di contatti, di essenza dell’altro per scambiare emozioni e per conoscerci. Non siamo fatti per autogestirci in una forma di onanismo mentale. Questa assenza diventa la madre dei bamboccioni, della rabbia sociale, del l’isolamento affettivo, degli attacchi di panico. La violenza è la corazza che si indossa per anestetizzare le paure, le incertezze e i dubbi che nessuna chat potrà chiarire. È la maschera del personaggio che non ha anima, che non è capace di valutare le conseguenze delle proprie azioni. Un personaggio che cerca solo un altro apparire da postare e “vedere di nascosto l’effetto che fa”.