A volte l’odore della legna che esce dai camini richiama alla mente scene di vita vissute
di A I
A zonzo per il vecchio borgo riemergono ricordi e sensazioni legati alle vacanze estive di chi veniva affidata e parcheggiata a casa dei nonni paterni. Abitavano proprio nel cuore del borgo, in una casa arrampicata sui tetti e che i nipoti che venivano dalla città, adoravano, come fosse un luogo magico. Certo molto è cambiato nell’antico cuore del paese. Dalla fine degli anni ‘60 molti paesani migrarono verso case nuove, moderne, spaziose e certamente più confortevoli. Questo esodo coincise con il lento abbandono delle proprietà agricole e con il cambiamento portato dall’apertura a nuove attività lavorative. Arrivarono così alla spicciolata i “forestieri” affascinati dall’antico e dalla possibilità di acquistare a cifre modeste una casetta che, ben restaurata, poteva diventare un rifugio ameno per scappare dalla grande città e godere di una dimensione più lenta e agreste. E il borgo si ripopolò. Molte delle antiche case sono oggi pinte di vari colori, tradendo però la cifra stilistica che, dalla nascita del paese, era il grigio del colore della breccia. Peccato non si siano tramandati e protetti lo stile e la peculiarità del borgo. Quello che colpisce è il silenzio che regna tra la via di mezzo e tutte le sue vene laterali di vicoli, passaggi angusti, discesette ripide, ponticelli sospesi e piazzette. Tanti i fiori alle pareti, le piante e i decori di lampioncini, le targhe in ottone. Ma che silenzio!
La mente torna al passato quando invece il borgo era vivissimo perché animato da tante attività quali il calzolaio, il fruttivendolo, il barbiere, l’emporio alimentare, il bottaio che batteva tini in tutte le cantine ai tempi della vendemmia, lo scalpiccio degli zoccoli degli asinelli, mezzo fondamentale per trasportare, arrampicandosi su per le scale di accesso, persone, cerigne (cesti) colme di prodotti, fagotti, brocche di alluminio per il latte, fascine di legna per i camini.
E poi c’era il “Forno di Paf”.
Era in un vicolo scendendo verso la porta di San Biagio girando a sinistra. Un posto mitico. Nelle case spesso anguste c’erano stufe a legna, macchinette a gas con bombola annessa, camini e cucinare era limitato a pochi cibi. In tutte però troneggiava la “madia”, il mobile che custodiva al suo interno il pane, principe ed elemento fondamentale delle tavole. Pagnotte avvolte in canovacci bianchi di cotone spesso, sempre un po’ infarinati. Si apriva dall’alto la ribalta e quel profumo di buono si sprigionava quasi con gioia. Si panificava decidendo il turno di cottura nel grande forno solo ogni 2/3 settimane. Che bello quando si tirava fuori la pagnotta e con cura si affettava il pane. Ma al forno si andava per cuocere non solo pane ma anche pizze al pomodoro o con fiori di zucca, carni varie in grandi porzioni, ciambellette, crostate con la marmellata fatta in casa, ciambelloni, zucchine o peperoni ripieni, croccanti di nocciole. Durante le feste il forno era una macchina che spandeva profumi per l’aria e sempre acceso con legna e brace risplendente. Si prenotava il proprio turno e poi su teglie enormi di ferro nero si scendeva e si consegnava al “fornaio Paf” il preparato per la cottura. Per le donne era un lavoro massacrante ma tutte lo facevano con una dovizia, una bravura e un impegno davvero commoventi. Pasqua, poi. Era tradizione preparare le famose “pizze di Pasqua”, dette anche “pizze cresciute”, meravigliosi funghi dalla copertura di un bel marrone scuro e resa lucente dalla chiara d’uovo che veniva spennellata ad arte. Un sapore poco dolce perché si usava per la colazione della Santa Pasqua insieme a uova sode e salame corallina. Non mancava in nessuna tavola sacrofanese. I bambini andavamo come in processione con mamme e nonne a infilare questi gioielli nella bocca del “Forno di Paf” e aspettavamo la chiamata per portare a casa il tesoro cotto e fragrante. Belle e gioiose Pasque. Anche oggi resiste la tradizione ma ormai è raro ritrovare quel sapore misto di vaniglia e limone e quel colore quasi rosa dell’interno. Era il “Forno Magico” che faceva la differenza e i miei ricordi si fermano alla gioia di uscire un po’ infarinata, stretta alla mano di mia nonna allegra e felice di portare a casa quelle faticose bontà.