Il difficile rapporto tra radici e cambiamenti è un mito da sfatare.
di Marco Ferri
Parafrasando la canonica definizione del “mito del buon selvaggio”, secondo cui all’inizio si era tutti buoni e pacifici, ma i cambiamenti ci resero poi malvagi, aleggia la convinzione che chi è nato a Sacrofano, da alcune generazioni, – il cosiddetto “Sacrofanese doc” -, si senta un sopravvissuto che ha dovuto fare i conti con la corruzione della modernità. Contemporaneamente coloro che “sono venuti da fuori”, “i forestieri” che statisticamente sono ora la maggioranza numerica, tendono ad avere un atteggiamento di sufficienza, come dovessero adattarsi a una realtà retrograda. Alcuni addirittura si sentono novelli signorotti di campagna, che pretendono di disporre di servigi invece che di servizi, offerti dagli artigiani, cioè giardinieri, elettricisti, ecc. o dai commercianti e dai ristoratori. Il punto di contatto tra questi due atteggiamenti, – in realtà più mentali che pratici -, è una sorta di attendismo rinunciatario, che alimenta la percezione che “certe” cose a Sacrofano “la gente” non le capirebbe, e che altre non si possano fare, perché a Sacrofano certe “cose” nessuno avrebbe la voglia o il coraggio di farle. In effetti la realtà è ben diversa, perché se è vero che “le cose” cambiano comunque, il problema è solo e sempre la differenza tra subire i cambiamenti o imparare a gestirli. Qual è il punto? Dobbiamo cambiare noi, il nostro modo di vedere, di comprendere e di agire. E farlo insieme. Vale pena citare una famosa massima che Ted Sorensen, noto ghostwriter, scrisse per l’insediamento alla Casa Bianca di John F. Kennedy: “Non chiedetevi cosa può fare il vostro paese per voi, chiedetevi cosa potete fare voi per il vostro paese”. Questo vale anche se il paese si chiama Sacrofano, cioè vale per tutti, sacrofanesi doc o acquisiti. Ma soprattutto vale per la missione di questo giornale.